A tutto Volumex!
L’acquisizione dell’Abarth da parte della Fiat, nel 1971, fu senz’altro un ottimo affare per il Gruppo torinese. Significava assicurarsi un notevole patrimonio tecnico, professionale e soprattutto umano, oltre all’enorme ritorno pubblicitario dell’averne fatto in buona sostanza la squadra corse ufficiale del gruppo. E questo, in tempi eroici in cui ancora gli sport motoristici non erano stati asfaltati dalla “Dottrina Ecclestone”, voleva dire essenzialmente: incremento delle vendite.
Anche per l’officina di Corso Marche, l’acquisizione non era una cattiva notizia. Gli uomini Abarth avevano ora a disposizione fondi, strumenti e know how per portare le vetture marchiate con lo scorpione in cima alle più prestigiose discipline sportive automobilistiche. Certo, per forza di cose il marchio Abarth sarebbe stato utilizzato come una sorta digriffe, e l’enorme successo della A112 Abarth l’avrebbe dimostrato platealmente, segnando il primo vero cambiamento rispetto alle care, vecchie, 500, 600, 850 assemblate quasi a mano e in numeri limitati. Il futuro avrebbe visto probabilmente una vettura marchiata Abarth quasi in ogni segmento, e non necessariamente progettata con il fine delle corse.
D’altro canto, la tipica “creatività Abarth”, artefice di follie vere e proprie quali l’apocalittica Fiat 850 con motore 2 litri, rischiava di venire messa sotto tutela e, in definitiva, imbrigliata. O, quantomeno, indirizzata nelle scelte: questi “ordini dall’alto” si sarebbero resi protagonisti di scelte anche rischiose, si pensi alla decisione apparentemente autolesionista di fermare lo sviluppo della X1/9 Abarth, sicuramente un’arma totale, che avrebbe titaneggiato i rallyes negli anni Settanta, per creare ex novo una vettura da gara sulla base della grossa berlina 131. Fu solo grazie alla maestria degli uomini Abarth, forti dell’esperienza acquisita col prototipo “031” del 1975, e della carrozzeria Bertone, che si riuscì a trarre fuori da quel “camion” (come la chiamava Walter Röhrl) una vettura capace di vincere Tre mondiali rally.
La 131 divenne così, da possibile disastro, una delle vetture che maggiormente diede lustro all’Abarth e, di riflesso, assicurò un ottimo e duraturo successo di vendite alla berlina di base, come da intenzioni del management. Quanto alla 131 Rally, una volta esaurita la produzione dei 400 esemplari richiesti per l’omologazione, fu tolta dai listini nel 1978. Ma questo non segnò affatto la fine dei giochi fra l’Abarth e la berlina torinese, che l’anno successivo tornò sotto le mani dei tecnici di Corso Marche, e per fini apparentemente non agonistici.
Sul finire del 1979, i tecnici Fiat ipotizzavano di ottenere un significativo contenimento dei consumi di carburante, a parità di prestazioni, applicando compressori volumetrici costruiti dall’Abarth ai motori di normale produzione, anche di piccola e media cilindrata.
La sperimentazione ebbe inizio nei primi mesi del 1980, facendo circolare su strada alcuni prototipi di “131 1300 2 porte” con i propulsori modificati. Tali motori mantenevano l’originaria cilindrata di 1301 cm³, ma l’adozione del compressore volumetrico portava la potenza alla bella cifra di 113 CV, con relativo innalzamento delle prestazioni, e senza compromettere troppo l’elasticità di marcia. Cosa che al tempo non si poteva certo ottenere col turbocompressore, dal funzionamento ancora troppo “brutale” ed oneroso in termini di consumo, ma la cui sperimentazione procedeva spedita ad opera di molte Case europee. Fra le quali, ovviamente, mancava la Fiat.
Purtroppo per la Casa torinese, nonostante le doti di incremento di potenza e di elasticità, l’amato compressore volumetrico deludeva proprio per via dei consumi, inevitabilmente elevati. Decisi a non perdere i loro soldi, al Lingotto decisero così di riservare l’esperienza del compressore volumetrico ai modelli di “fascia alta” della gamma Fiat e Lancia, e ciò voleva dire essenzialmente sviluppare un motore volumetrico sulla base del celeberrimo bialbero Lampredi da due litri. I primi frutti “stradali” della sperimentazione arrivarono già nel 1981 con l’allestimento in piccola serie (200 esemplari) della 131 Volumetrico Abarth, prima su base 131 Racing 2 porte, e successivamente su base 131 Supermirafiori terza serie 4 porte.
Entrambi i modelli non differiscono in modo sostanziale da quelli di serie, salvo che per i cerchi in lega a quattro razze marchiati Abarth calzanti pneumatici Pirelli P6 ribassati, per l’assetto ribassato e per gli immancabili stemmi Abarth. Piccoli tocchi anche all’interno, con l’adozione del volante sportivo a tre razze di alluminio (marchiato convenientemente Abarth anche questo), e per la batteria di strumenti supplementari (manometro olio, termometro olio e voltmetro) che, essendo alloggiata nel vano inizialmente previsto per la radio, costringeva l’acquirente ad accontentarsi della musica proveniente da sotto il cofano. Che, dal canto suo, vantava numeri di tutto rispetto: 140 CV in luogo dei 115 della 131 2000 TC di serie, per una velocità massima di circa 200 orari.
La 131 Volumetrico (per quanto possa suonare stridente un aggettivo femminile con un sostantivo maschile, si diceva proprio così…) non fece versare grandi fiumi di inchiostro e, causa battage pubblicitario inesistente e prezzo di vendita impegnativo, non diede origine certo a lunghe file di acquirenti fuori dalle concessionarie. Eppure, quel compressore era una vera e propria chicca, in quanto sviluppato e brevettato interamente dall’Abarth e, seppur concettualmente simile al famoso compressore Roots a lobi, aveva delle importanti innovazioni come la geniale pompa di lubrificazione degli ingranaggi integrata. Diventava così evidente il fine ultimo della sperimentazione dei compressori Abarth: le corse.
A Torino erano convinti della validità della loro idea e dei vantaggi che il Volumex avrebbe assicurato nei confronti dei rudimentali, poco trattabili e ancor meno affidabili turbocompressori nel frattempo portati in gara dalle altre case. Dallo sforzo congiunto di Lancia, Dallara, Pininfarina e Abarth, sotto la guida dell’ingegner Sergio Limone, nacque nel 1982 l’arma totale del Gruppo torinese: la Rally 037. Cellula centrale Beta Montecarlo (che, dopotutto, era nata in previsione di questo preciso uso!), telaio tubolare, leggerissima carrozzeria con cofani integrali in vetroresina, trazione posteriore e motore centrale Due litri con testata a quattro valvole per cilindro e compressore Volumex: la versione stradale era accreditata di 205 CV e venne costruita nei duecento esemplari minimi previsti per l’omologazione nel gruppo B.
L’esordio non fu dei più facili. L’asso pigliatutto di quell’anno era l’Audi Quattro con trazione integrale e motore cinque cilindri turbocompresso. Grazie all’innovazione delle Quattro ruote motrici, il “panzer” vinse il mondiale di quell’anno battendo puntualmente una “037” non ancora perfettamente a punto. Ci sarebbe voluta tutta la testardaggine e l’esperienza della squadra corse e degli ingegneri, per vedere riconosciuti i loro sforzi: dai 260 CV dell’esordio, la Lancia, continuamante affinata, arrivò a sviluppare 350 CV grazie ad un ingegnoso sistema d’iniezione per raffreddare il compressore volumetrico. Nonostante l’handicap della trazione posteriore, la leggera 037 volava letteralmente sui rettilinei e si infilava come una spada nelle curve strette, a patto che il fondo non fosse troppo “sporco”. Quanto bastò per vincere il mondiale successivo, uno dei più avvincenti di sempre, alle spese proprio di una sconcertata Audi.
Nel frattempo, il volumetrico aveva fatto il suo debutto in società accoppiato stavolta, come ovvio, al marchio Lancia: prima fu la Trevi Volumex con motore due litri da 136 CV. Riconoscibile per i cerchi in lega, per lo spoiler anteriore e per la scritta “VX” nella mascherina anteriore, aveva buone prestazioni, tanta coppia e consumi convenientemente alti. Fu scelta da qualche gentleman driver capace di soprassedere sull’indisponibilità del condizionatore, che non poteva essere montato per motivi di spazio, e sulla bizzarria della plancia “millebuchi”, capolavoro di Mario Bellini. Un’ottima stradista che non fece numeri di rilievo, essenzialmente per l’estetica ritenuta poco riuscita e soprattutto basata su un modello, la Beta, nata ben Dieci anni prima.
Poi, fu la volta della Beta Coupè e della HPExecutive, anch’esse ormai a fine carriera. Meno discrete della Trevi, grazie ad uno spoiler posteriore in gomma nera, erano caratterizzate anche da un non bellissimo rigonfiamento sul cofano, dovuto al gomito del collettore d’aspirazione che si innestava sul compressore volumetrico. A proposito di quest’ultimo, presentava delle differenza rilevanti rispetto alla versione costruita dall’Abarth e montata sulla precedente 131: era di dimensioni più piccole e non disponeva più della pompa di lubrificazione integrata, presentandosi dunque simile al classico compressore Roots.
Poco tempo dopo, furono ancora due vetture a marchio Fiat ad ospitare il compressore volumetrico: la Spidereuropa Volumex, estrema evoluzione della eterna Fiat 124 Spider disegnata da Tom Tjaarda, e la Argenta VX (SX per i mercati esteri), crepuscolare versione della decotta berlinona di rappresentanza torinese, ultima evoluzione della non riuscitissima Fiat 132.
Nel frattempo, il Volumex originale si godeva l’ultima fiammata di gloria sotto il cofano della leggendaria Delta S4, prima auto al Mondo con sistema sovralimentazione mista: volumetrico più turbina KKK. L’idea folle di Limone era tutto sommato semplice: il Volumex, che aveva il vantaggio di spingere già a 2000 giri, avrebbe coperto il funzionamento del motore ai bassi regimi, mentre agli alti si sarebbe scatenato il turbo. L’unione dei due sistemi avrebbe permesso, nelle intenzioni del geniale tecnico, sia elaticità che potenza.
Ai bassi regimi, il Volumex aveva più pressione del turbo, quindi immetteva l’aria nella camera di aspirazione. Via via che aumentava l’energia dei gas di scarico, aumentava anche la portata del turbo. Pertanto, per un breve periodo, entrambi soffiavano nel motore, finchè al crescere dei giri la valvola escludeva il Volumex, in quanto la pressione del turbo era maggiore. La Delta S4 in versione stradale aveva 250 CV, mentre la versione da gara ne aveva poco meno di 500, al debutto. A fine stagione 1986, quando il gruppo B fu definitivamente bandito, arrivava a sfiorare i 600 CV.
Ma ormai era chiaro che l’esperienza Volumex aveva il destino segnato: già con la presentazione della Delta HF nel 1984 e delle Uno, Croma e Thema Turbo i.e. nel 1985, si intuiva che anche il futuro di Torino sarebbe stato turbocompresso. Il progresso era stato velocissimo e ormai i turbo erano gioielli di compattezza, efficienza, e non presentavano già più quel brutale turbo lag che negli anni Settanta avevano fatto spalmare sui guard rail diversi proprietari di BMW 2002 e Porsche 930. Il Volumex divenne così un ennesimo monumento, oggi molto impolverato, della genialità e della creatività italiana.
Una creatività vincente, seppur non nei freddi numeri di vendita. Come sempre, colpa del marketing di Torino.
Antonio Cabras | Milano, 1 maggio 2020.